Salvate il Martin-Siemens | Il Friuli

2022-09-23 21:59:36 By : Ms. Ales Fung

Rigogliosi arbusti sono cresciuti ormai nella penombra del capannone abbandonato a far indegna cornice al forno Martin-Siemens che resiste ancora sotto la caricatrice Badoni nell’ex acciaieria Safau. Materiali vari sono ammassati alla rinfusa da chissà quanto tempo davanti alle bocche di carico, un suo bruciatore di nafta è stato divelto e gettato in un angolo: un vergognoso caso di abbandono di uno storico impianto industriale purtroppo non infrequente nella nostra Penisola e il cui recupero è stato reiteratamente sollecitato alle istituzioni locali. Che cos’è il forno Martin-Siemens È un forno a riverbero concepito in generale per produrre acciaio bruciando il carbonio sottratto alla ghisa, caricata liquida e in parte solida. L’impianto di Udine era a carica solida, costituita da ghisa in pani e rottami ferrosi in proporzioni determinate. La camera di fusione (chiamata ‘laboratorio’) ha il soffitto a volta che riverbera la fiamma sul materiale in lavorazione, mantenuto costantemente a una temperatura superiore a 1.600°C. Terminati la fusione e il successivo processo di affinazione, sono aggiunte ferroleghe, generalmente ferro-manganese e ferro-silicio, per raggiungere la composizione dell’acciaio voluta. Il rivestimento interno del forno può essere acido o basico. I fumi e gas della combustione prima di essere eliminati attraverso il camino sono fatti passare attraverso un caratteristico graticcio di mattoni refrattari detto alveare: in questa maniera sono riscaldati a circa 1.100°C e cedono calore all’aria in entrata utilizzata per la combustione. L’operazione è regolata da valvole che invertono il flusso ogni 15-20 minuti, consentendo così di raggiungere nel laboratorio la temperatura di fusione dei rottami. Poiché permette un continuo e accurato controllo della composizione della massa in lavorazione, tale processo fornisce un acciaio di qualità superiore rispetto a quello ottenuto mediante il convertitore Bessemer-Thomas. Inventato nel 1855, di largo impiego sino alla Grande Guerra e progressivamente soppiantato proprio dal forno Martin-Siemens nel corso del Novecento, costituisce l’altro procedimento per la decarburazione della ghisa: essa è caricata allo stato liquido in un recipiente cilindrico nel quale s’insuffla aria, operazione che provoca tuttavia anche dannose inclusioni di azoto nell’acciaio. Il Martin-Siemens presenta il vantaggio economico ed ecologico di potere sfruttare i rottami ferrosi, come si faceva a Udine, assieme comunque all’handicap dei tempi lunghi di lavorazione, indicativamente quattro ore per un forno da 30 tonnellate: questi ultimi e il problema delle emissioni in atmosfera hanno portato, a metà degli Anni ’70, al suo accantonamento in favore dei forni ad arco elettrico e dei convertitori Linz-Donawitz a ossigeno puro nelle acciaierie a ciclo integrale. Per meglio comprendere l’importanza del Martin-Siemens non sarà superfluo considerare fugacemente il predecessore forno per il puddellaggio, presente nel primo stabilimento siderurgico udinese di viale delle Ferriere. Il forno per il puddellaggio Il termine deriva dal verbo inglese to puddle, che significa ‘rimescolare’: tale è l’azione che si svolge in questo forno che sfrutta il riverbero della fiamma su una camera di fusione separata da quella della combustione. Ideato da Vannoccio Biringuccio già nel ’500 e introdotto su vasta scala in Inghilterra nel 1784 da Henry Cort, richiede un’operazione manuale piuttosto gravosa: mescolata con un attrezzo dai puddlers attraverso un apposito foro nel forno, il pig iron in lavorazione, com’è chiamata la ghisa nel mondo anglosassone, perde progressivamente carbonio, che si combina con l’ossigeno dell’aria e aumenta il proprio punto di fusione passando dallo stato liquido a una consistenza pastosa, poiché la temperatura nella camera di fusione non supera i 1.300°C. Quand’è diventato pressoché solido significa che il carbonio ne è stato quasi del tutto eliminato e chimicamente si approssima all’essere ferro puro: a quel punto è estratto e battuto sull’incudine con un martello o mediante il maglio per farne uscire la scoria, costituita prevalentemente da silicati di ferro, che va eliminata in quanto inclusione dannosa. Con tale sistema si ottengono faticosamente masselli di 30-40 chilogrammi di ‘ferro omogeneo’ o ferro dolce, di qualità comunque già buona. Occorre tener presente che fino a buona parte dell’Ottocento non si conosce ancora che acciaio e ghisa siano leghe del ferro col carbonio né tanto meno i rispettivi diagrammi di fase, con le relative proprietà di struttura e fisico-meccaniche: genericamente e impropriamente si parla infatti soltanto di ‘ferro’. Nel 1865 il francese Pierre-Émile Martin apporta un’innovazione al proprio forno a riverbero con cui ottiene acciaio immergendo rottami di ferro nella ghisa fusa: applica a esso il recuperatore di calore ideato da Karl Wilhelm Siemens, che permette di raggiungere nel laboratorio temperature tali da riuscire a fondere i rottami stessi. Da quel momento il nuovo tipo di forno prende a dominare la siderurgia di tutto il mondo: la portata rivoluzionaria del procedimento Martin-Siemens si apprezza considerando che mai prima d’allora s’era potuto ottenere sistematicamente l’acciaio fuso senza bisogno di sfibranti rimescolamenti: la siderurgia era invece sempre consistita nel lavorare ‘ferro’ allo stato pastoso mediante operazioni di fucinatura. Il primo impianto udinese La sua storia ha il prologo negli ultimi anni della dominazione austriaca, precisamente attorno al 1860, quando si costruisce la linea ferroviaria di collegamento con Venezia: essa costituisce una delle condizioni propizie al sorgere nelle immediate vicinanze della stazione cittadina di una ferriera, che nasce già munita di binari di servizio e dà il nome all’attuale viale della circonvallazione; l’altro fattore è la presenza del canale Ledra, che permette l’utilizzo dell’acqua per refrigerare i suoi macchinari. Udine si accinge in tal modo a divenire partecipe della cosiddetta ‘seconda rivoluzione industriale’ che caratterizza la Belle époque: per rimanere nel solo campo siderurgico-meccanico, è quella che vede l’introduzione del marteau-pilon (maglio) a vapore inventato in Francia nel 1841 in sostituzione di quello idraulico, l’adozione della termite (processo alluminotermico) in Germania nel 1894 per la giunzione delle rotaie, la comparsa della saldatura ossiacetilenica negli anni a cavallo del ’900 e, appunto, l’utilizzo del nuovo procedimento per la produzione dell’acciaio in affiancamento e progressiva sostituzione del puddellaggio che aveva dominato la prima rivoluzione industriale di fine Settecento. Poco fuori porta Cussignacco ecco quindi che nel giugno del 1883 s’inaugurano le Ferriere di Udine, nella città da soli 17 anni appartenente al Regno d’Italia: nel volgere di altri 22 esse si doteranno del nuovo forno a riverbero con recuperatore di calore. Così come le sue materie prime – la ghisa fatta arrivare dallo stabilimento siderurgico di Storé nell’attuale Slovenia e tuttora in funzione e la lignite di Köflach per produrre il ‘gas di città’ che lo alimenta, raccolto in gasometri –, austro-ungarico è Carl Neufeldt, uno degli azionisti delle Ferriere. Norvegese è invece il suo direttore tecnico, l’ingegner Sendresen: nell’imminenza dell’inaugurazione nel 1905 della rinnovata infrastruttura che ospiterà il primo Martin-Siemens udinese, egli sottolinea con compiacenza che i capiforno e primi operai friulani sono stati “plasmati” dallo stabilimento stesso, il quale agli inizi aveva vantato una prevalenza di maestranze tedesche: autorevole attestazione del costituirsi di un patrimonio di conoscenze tecnologiche nella ‘fase uno’ dell’acciaieria udinese. Installato dalle Ferriere di Udine e di Pont S. Martin, il forno Martin-Siemens cittadino effettua la colata inaugurale il 2 aprile 1905 e ne viene a costituire il nucleo tecnologicamente più avanzato. Gli impianti diventeranno nel volgere di pochi anni due, entrambi della capacità di 20 tonnellate, assieme a due forni per il sopravvivente puddellaggio, due forni ‘bollitori’ di preriscaldo del rottame di ferro, uno per la fusione della ghisa, un maglio a vapore, un’officina meccanica, un generatore elettrico e due treni di laminazione. Negli anni che seguono la Grande Guerra lo stabilimento udinese riesce a mantenere a un livello qualitativo elevato la propria produzione, nonostante la chiusura dal 1915 al 1920, le distruzioni belliche, la mancanza assoluta di un’adeguata politica industriale governativa nel periodo successivo e le ricorrenti crisi del settore. Gli avvenimenti decisivi che portano tuttavia nel 1934 alla sciagurata chiusura del complesso udinese sono due: l’entrata nelle Ferriere di Udine e di Pont S. Martin del capitale della Società Cantieri Navali e Acciaierie di Venezia e successivamente l’incorporazione di quest’ultima nella Ilva. La costruzione del nuovo polo siderurgico di Porto Marghera e il conseguente concentramento in esso di molteplici fasi di lavorazione metallurgiche, meccaniche e navali, assieme al concomitante processo di razionalizzazione e riorganizzazione nazionale del comparto, conducono alla soppressione di sei stabilimenti italiani – tra cui quello udinese – e si traducono in un grave depauperamento della realtà produttiva locale, anche e soprattutto a causa della dispersione del bagaglio di conoscenze tecnologiche dei suoi operai specializzati, alcuni dei quali si trasferiscono con le famiglie a Marghera. Degli impianti delle Ferriere di Udine sono in particolare smontati e trasportati nella località lagunare due treni di laminazione da 260 e 350 millimetri e lo sbozzatore da 450. Non risulterà superfluo sottolineare che lo stabilimento udinese nel 1931 dava lavoro a 620 addetti e che nel 1933 era capace di produrre ben 16.500 tonnellate d’acciaio. Il 19 novembre di quello stesso 1934 vede tuttavia nascere la ditta di Giovanni Zadussi e Serafino Galotto, che cambierà in seguito ragione sociale in Acciaierie e ferriere Zadussi Giovanni: si tratta di un piccolo impianto di rilaminazione di rottami di ferro che nel 1936 ha alle proprie dipendenze 28 operai. Questo nuovo stabilimento siderurgico s’insedia tre anni dopo a breve distanza dalle vecchie Ferriere, in via Castelfidardo, inserendosi nel quadro di una profonda modifica dell’assetto urbanistico dell’area ‘fuori Porta Cussignacco’. Nel 1905 ‘La Patria del Friuli’ aveva celebrato nell’abbattimento delle mura, nel canale Ledra e nella ferrovia gli elementi di radicale cambiamento e sviluppo della zona; l’architetto Sanjust di Teulada ne aveva poi progettato la sistemazione nel 1909 e se ne ridiscute ancora nel 1938, caldeggiando una soluzione ben più elegante di quella odierna, ma l’operazione rimane incompiuta. Il complesso industriale assume nel 1942 la denominazione di ‘Società per Azioni Ferriere e Acciaierie di Udine’, condensato nella sigla Safau. Affiancati ai reparti di fonderia, forgeria, trafileria e officina meccanica oltre a un innovativo impianto di produzione di ossigeno, condotto con maestria da Lodovico Novelli, erano funzionanti due forni elettrici ad arco a carica manuale, l’uno da 4 tonnellate l’altro da 8 tonnellate, soggetti tuttavia a periodiche fermate dalla carenza stagionale di energia elettrica. Il nuovo Martin-Siemens udinese Per sottrarsi a questa spada di Damocle, nel settembre del 1949 comincia l’auspicata realizzazione del Martin-Siemens tuttora esistente, il terzo in ordine di tempo, costruito come detto per sfruttare i rottami di ferro con una carica soltanto parziale di ghisa. È alimentato a nafta pesante, la quale presenta tuttavia l’inconveniente d’introdurre zolfo. Il combustibile è utilizzato da due bruciatori ‘a cannone’ con polverizzazione ad aria compressa, introdotti nel laboratorio mediante appositi carrelli e funzionanti alternativamente seguendo il ciclo d’inversione delle valvole dell’aria, con un consumo medio di 137 chilogrammi di nafta per tonnellata d’acciaio prodotta. Il rivestimento del forno è acido fino all’8 maggio 1952 e successivamente basico, realizzato con mattoni di cromo-magnesite fatti arrivare dall’Austria. Qualche numero: le dimensioni interne del laboratorio sono 7,10 metri di larghezza, 2,80 di larghezza e 0,55 di profondità. La sua capacità è di 30 tonnellate (180 giornaliere complessive) e la carica di ghisa e rottami avviene attraverso tre porte situate nella parte anteriore. La prima colata avviene nella notte fra il 23 e il 24 febbraio 1951. La cerimonia d’inaugurazione alla presenza delle autorità cittadine si svolge lunedì 26: il giorno successivo il ‘Messaggero Veneto’ descrive il momento nel quale è frantumato il tappo di refrattario che ottura il foro di scarico e celebra “la tenace operosità e lo slancio organizzativo” di Serafino Galotto nel raggiungimento di questa “tappa” di un cammino da lui iniziato tanti anni prima “con mezzi modesti ma formidabile volontà”, applaudito dagli operai che lo ringraziano e lo considerano “un amico dei lavoratori e un maestro”. In quel momento la Safau conta circa 500 dipendenti, numero che si sta avvicinando a quello vantato dalle Ferriere vent’anni prima. Di lì a un anno sono realizzati anche i binari di raccordo con la linea ferroviaria. Pur bruciando nafta pesante, il Martin-Siemens è adattabile per la combustione del metano e si legge ancora su quella pagina del quotidiano locale, “in previsione di una futura possibilità di sfruttamento di questo idrocarburo, i cui giacimenti sono segnalati anche nella nostra regione”. La trasformazione a metano si realizza agli inizi degli anni Settanta. La fiamma di questo gas non permette tuttavia di raggiungere il riverbero luminoso della nafta e questo si traduce in una temperatura più bassa nella camera di fusione, spiega Mario Croce. Disegnatore tecnico, dopo aver sovrinteso ai lavori della costruzione del forno, dal 1949 al 1959 è responsabile della sua manutenzione, ne progetta i bruciatori a nafta, apporta alcune modifiche alla volta dei canali del recuperatore di calore e risolve molti problemi pratici dello stabilimento, attingendo copiosamente al parco rottami, come diviene presto consuetudine: Serafino Galotto lo abitua infatti a “credere nel rottame”, dovendo fare costantemente di necessità virtù nei ruvidi anni dell’immediato secondo dopoguerra. Seguo i suoi racconti con sotto gli occhi un quaderno ad anelli aperto proprio sulla pagina con le sezioni delle volte delle condotte del Martin-Siemens, gli impeccabili disegni corredati puntualmente delle quotature. Croce sottolinea che nei dodici anni “di difficile ed entusiasmante lavoro” sotto la guida di Galotto il nuovo stabilimento udinese si colloca “all’avanguardia nello sviluppo della siderurgia” proprio con lo studio, assieme a tecnici della Dalmine, della piroscissione del metano per elevarne il tenore di carbonio e aumentare la luminosità della sua fiamma. In quegli anni innovativi sono realizzati prodotti come il primo tondino per cemento armato in Italia con aderenza potenziata Torstahl su licenza di brevetto austriaca (1948), ma soprattutto si attua la sperimentazione nel 1957 della prima macchina di colata in continuo dell’acciaio, capostipite in Italia e fra le prime 16 al mondo. In maniera analoga alla precedente, la ‘fase due’ dell’acciaio udinese si segnala dunque per l’intraprendenza e la crescente preparazione professionale dei suoi dipendenti a tutti i livelli: essi acquisiscono sul campo, consolidano e incrementano un patrimonio di conoscenze tecniche che si esplica già nella realizzazione delle stesse infrastrutture dell’acciaieria. Il nuovo Martin-Siemens consentirà alla Safau in seguito di superare le 50mila tonnellate annue di produzione, che saliranno a oltre 120mila grazie all’affiancamento dall’8 febbraio 1958 di un ulteriore forno elettrico ad arco da 40 tonnellate. Croce spiega che la fabbricazione dell’acciaio con il Martin-Siemens risulta “molto più complicata della fabbricazione al forno elettrico”: mentre infatti quest’ultimo “è un forno, potremo dire, sempre a disposizione di chi lo conduce”, la marcia del primo “richiede una notevole serie di particolari attenzioni”. “Raro che si facessero male: si lavorava con grande attenzione. Stare attenti era un insegnamento della guerra”, risponde Croce alla mia domanda sui pericoli che il lavoro al Martin-Siemens poteva comportare per i suoi addetti; con legittima soddisfazione egli ricorda come durante gli anni in cui i reparti manutenzione e le squadre impianti sono stati alle sue dipendenze nessuna persona facente parte di tali servizi abbia riportato lesioni gravi per incidenti sul lavoro: “Si sono verificate scottature e qualche lesione di lievissima entità: questo non per merito mio ma per la capacità di tali persone che hanno sempre saputo lavorare con intelligenza e attenzione”. Doti, queste ultime, dispiegate in operazioni delicate, come quando si deve improvvisamente liberare la ciminiera da un portellone di ghisa rotto che ne impedisce il corretto tiraggio: assieme a due tecnici Croce percorre un canale dell’aria del Martin-Siemens dopo averne bloccato le valvole, per non essere costretti a spegnerlo; e chissà quanti altri episodi del genere quel forno potrebbe raccontare, se avesse la parola. Molti di essi sono rievocati nella seconda domenica di giugno di ogni anno nell’annuale pranzo che riunisce gli ‘Amîs de Safau’, ex dipendenti legati da forte senso di appartenenza e di solidarietà che testimonia il ricordo di un ambiente di lavoro non certo detestato nonostante la durezza della fatica fisica che imponeva. Tuttavia esigenze di mercato e soprattutto ambientali, avvertibili queste ultime particolarmente nella zona del piazzale Cella a causa di polveri e rumore, conducono gradualmente lo stabilimento alla chiusura, che giunge alla fine degli anni Settanta. Il suo Martin-Siemens funziona sino al 5 agosto 1975 e chiude i circa ventiquattro anni della propria attività dopo aver colato complessivamente 1.006.736 tonnellate d’acciaio. Rimane probabilmente l’unico sopravvissuto degli 84 impianti operanti nel 1955 in tutto quanto il comparto siderurgico italiano. Il ruolo fondamentale svolto a livello mondiale per circa un secolo da questo forno nella produzione dell’acciaio e il correlato patrimonio di conoscenza tecnologica motivano ampiamente il suo sollecito recupero quanto meno a scopo storico e didattico, salvandone contestualmente la ciminiera alta 60,4 metri: assieme alle altre costruzioni di cemento armato della Safau, essa resistette ai terremoti del 1976 e da ormai 67 anni è divenuta familiare a chiunque entri da via Lumignacco in città, divenendo in seguito meta di qualche urban explorer che l’ha scalata. La proposta di realizzare nel complesso dell’ex Safau una serie di spazi a carattere museale era stata peraltro autorevolmente caldeggiata fin dagli Anni ’80 sulla scorta di esempi come quello della miniera di salgemma di Hallstatt nel Salisburghese. Se è vero che l’acciaio di Udine è stato una realtà in ben due distinte fasi storiche, assieme alla costituzione di un sapere tecnologico esportato con successo nel mondo, non può essere assolutamente accettabile per la città lasciarsi privare sciaguratamente del suo simbolo a causa d’insipienza e incuria: il suo Martin-Siemens può e deve essere salvato. Senz’altro doveroso, inoltre, è dedicare una o più vie del capoluogo friulano ai protagonisti di quelle due entusiasmanti epopee della siderurgia cittadina.

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